ALTO MARE

 

Adesso, una trentina d'anni dopo, tutto appare effettivamente più semplice, anche se per me è ugualmente difficile essere saggio, così come  potrebbe invece esserlo, senza alcun problema, un ammiraglio da poco felicemente pensionato, uno di quelli con un grande anello a sigillo al dito e la casa strapiena di oggetti esotici dai colori coloniali, di rilucente ebano e di ottoni bruniti. L'ammiraglio è felicemente rientrato anche dal suo ultimo viaggio, e quindi adesso ci si attende che narri qualche piacevole avventura ambientata in mari lontani, dei quali conosce ogni secca e ogni onda capricciosa. Ma chissà se avrà mai osato spingersi oltre, più in là, lontano, troppo lontano, se si sarà mai avvicinato ai vertiginosi abissi del Maelström, se qualche volta avrà provato una sensazione di assoluto abbandono e solitudine, quel raccapricciante abbraccio della Paura e dell'Impotenza perché una Forza Ignota lo avrà trascinato Laddove mai Nessuno è stato? E infine, è possibile, in genere, che un marinaio, comunque ritornato al proprio antico porto, e per sempre, possa rispondere a una simile domanda?

Anch'io, tanto tempo fa, presi il largo e mi spinsi troppo lontano, più lontano di chiunque altro. E dire che intendevo solo cercare  i condimenti della Letteratura Noir, del Caos, e non della narrativa postmoderna, come poi alla fine risultò.  Pertanto, quanto segue non è assolutamente il racconto di continenti inesplorati, bensì la narrazione di un'infinita navigazione senza scopo. Perché, alla fine, la Prosa noir si è rivelata un oceano senza terraferma, un oceano sul quale non si fa che solcare senza requie la sua profonda materia oscura, in tutti i sensi e in tutte le direzioni. 

Tutto s'era semplicemente iniziato da un'unica forte impressione, dalla convinzione che io potevo farcela, e che potevo farcela in maniera diversa e più ardita. Non scelsi il momento. Forse ebbi solo la sensazione che mi mancasse qualcosa: un po' più di fiducia in me stesso, di curiosità nelle dita, di sogni nei remi e nelle vele. „ Ma non è troppo banale – pensai – continuare a dondolare così a poppa, di giorno in giorno, di settimana in settimana, di anno in anno, scorrazzando sempre daccapo lungo le distese bassure litoranee del corsivo e del minuscolo ?“ All'imbrunire vidi molti pivelli, ma anche persone che tutti reputavano dei lupi di mare, abbandonare madracchi e ormeggi in silenzio, senza proferir parola, solo al suono dello scroscio rattenuto dei remi, pigliando il largo su leggeri battelli e barche, manovrando abili tra banchi sabbiosi di parole e di tormentate sintassi. Uscivano dalla laguna nel falso mare aperto, là dove c'era ancora qualcosa da pescare purchessia, parlottando con importanza sullo smalto marino dagli occasionali riflessi. E, perdio!, se non era arrogante quel loro schierarsi in formazione, quasi ad anfiteatro, nel chiarore di un'infinità di strane luci, occupandone le ali e il centro come le flotte turche nelle incisioni di Stefano Scolari e Marco Sadeler, ma con le prue sempre rivolte verso terra, verso la riva, verso i non lontani, sicuri colli, e mai in direzione del mare aperto, né degli alti cavalloni: mai verso sillabe dinamiche e trame ben congegnate.

All'alba le loro reti erano vuote: null'altro che qualche immagine più consistente, qualche metafora sfuggente, un barbiglio o un tentacolo di qualcosa tuttavia vivente.

Apatia è probabilmente la parola più giusta per descrivere questo alieutico nord, interiore e provinciale, quest'inanità di mantelli incerati e stivali sempre gli stessi, quest'incessante autunno piovoso, fiacco d'amore e di trasporti. Sapete bene com'è quando al tavolo di lavoro ci si siede come a tavola per una cena collettiva, dove il menu è risaputo e i convenevoli da lungi usurati. Ah, me ne son dovuto sorbire di cattiva letteratura, di prosaccia con tutti quegli stiracchiamenti e cervellottiche leziosaggini, di  ritratti d'insieme coronati dai consensi borghesi, peraltro ragguardevoli. Un tavolo di lavoro è comunque un'altra cosa: non il carnevalesco Bucintoro dogale, cui si plaude dalle finestre arabescate di Venezia, soffuse dei colori vivaci delle vesti, dei vessilli e dei parati. Un tavolo di lavoro è la nave di Magellano di grande pescaggio, infilata nel cielo bizzoso del quale interpreta i segnali.

„Sentite“, dissi una sera, „venite domattina presto in riva; io me ne vado“.

All'alba la darsena di Porto Morto era troppo angusta per accogliere tutta la plebaglia incuriosita. Era davvero strano quel nostro ultimo affresco collettivo, appena rischiarato dal semicerchio di uno smorzato albore color vecchio lichene.

Non potevo pigliare il largo con una benda nera sugli occhi come avrei voluto; e non perché preferissi sbracciarmi a salutare a lungo dal ponte, e nemmeno per imprimermi per sempre nella memoria lo spettacolo stucchevole di quel commiato; bensì per schivare i banchi di sabbia e le scogliere di quella familiare costiera. Nel posto in cui ero diretto mi serviva una vista affatto diversa.   

Mi occorse del tempo per entrare nelle acque del mondo sconosciuto. Navigando mi imbattei  tuttavia, ancora a lungo, nella solita interpunzione: gavitelli con bandierine, segnalatori di reti e nasse, sacchetti di plastica, rami, boe alla deriva e frammenti di remi e di alberi, delfini su rotte nautiche immaginarie e stormi di gabbiani turbinanti sulle rotte collaudate dai pescherecci. Le loro acute strida erano degli esclamativi! E lì, da qualche parte, doveva comunque trovarsi l'estremo limite delle acque conosciute.

Volevo trovare la distesa  infinita delle parole pure, quelle appena emerse da abissali profondità, dal tempo, dal Nulla, o da chissà dove, parole senza significato, senza accento, senza senso, senza patina e tortuosità, parole senza stratificazioni archeologiche, parole senza sinonimi e omonimi, parole che non alludono e non esprimono niente  che se stesse, quelle meravigliose, primordiali , innocenti parole che non sanno di essere il nostro sale e il nostro tutto.

Sapevo che avrei dovuto passare attraverso la distesa profonda e pericolosamente torbida della lingua salmastra, in quel punto estremo dove si sfiorano e poi divergono l'inizio e la fine, attraverso quel vortice impetuoso, brulicante di parole irruvidite, indurite, che non riescono più ad accogliere alcun carico semantico, e di parole ariose, appena affiorate, tuttora franche da qualsivoglia vincolo linguistico, globose come cerulee bollicine ascendenti in superficie. Germi, embrioni di parole nuove e di intere nuove lingue e linguaggi, puri come sorgenti alpine, in quel punto zampillano alti come geyser e, precipitando in ebbra picchiata come orche assassine, dispensano a tutto nuovi valori e nuovi significati.

Ah la lingua salmastra! Era una chimica, che dovevo appena affrontare,  totalmente diversa dalla chimica dei simboli e degli stereotipi della costa.

Finalmente l'interpunzione sparì completamente. A me d'intorno si estendeva unicamente la sconfinata materia oscura. Le correnti facevano la loro parte trascinandomi in ogni dove. Senza punti e senza virgole, senza i due punti, i trattini e i punti interrogativi non c'era più regola alcuna. L'oceano faceva di me quello che voleva. Durante il giorno, mentre l'inclinazione di indeterminati raggi luminosi rendeva la superficie della materia oscura pur sempre abbastanza trasparente, cercavo di discernere qualcosa là sotto. Ma non si vedeva niente. Durante inaspettate bonacce, allorché tutto si fermava e la barca non poteva sfuggirmi, mi tuffavo e nuotavo in apnea finché resistevo. Ma quella profondità era sterminata. In effetti, forse la materia oscura era profonda, improduttiva e vasta solo in senso orizzontale, ma io non potevo saperlo, perché non sapevo nemmeno se stessi veramente nuotando in profondità o se non facessi che galleggiare in senso orizzontale, nient'altro che ruotando vicino alla superficie.

In balia dei capricci di circostanze caotiche, persi completamente il senso dello spazio e del tempo, e persino il ricordo dei motivi per cui ero lì giunto. La sparizione dell'interpunzione liberò le parole, ma anche i miei pensieri, e tutto ciò che tentavo di definire in maniera congrua si trasformava in mostruosi anagrammi illeggibili. Coscienza e subconscio, senso e nonsenso mi razzolavano nei timpani. Pian piano la materia oscura mi sopraffece.

Chissà dove mi trovavo in quel momento? Mi ero accinto a quel viaggio con vera audacia, però non ero ancora giunto da nessuna parte. E già mi stavo chiedendo se il torpore e il vuoto assoluto non fossero, forse, quel possibile stato di essenzialità cui tendevo. Perché nell'Altrove forse non vi è null'altro che una sconfinata desolazione, e tutto stava ancora succedendo al di qua della lingua salmastra e ancora sempre con parole che qualcosa significavano.

Fu allora che mi fece visita la prima volta l'orribile volto della Paura, anch'esso costituito dalla più densa materia oscura. Solo, sulla zattera che una possente, cupa energia stava trascinando chissà dove, mi inginocchiai davanti a Dio. No, non era la paura di una vile morte o di un dolore insopportabile e lacerante, né era la paura della solitudine o di un raccapricciante decadimento. Era la paura primordiale provocata dall'indicibile e imperdonabile inanità dell'impresa. Perché disponevo solamente di quell'unico viaggio, di quella sola e unica grande navigazione, senza sole e senza stelle, senza sestante e senza bussola, e senza nessuno ad aspettare qualcosa da qualche parte, a prescindere dall'esito della mia assolutamente superflua intrapresa. Mentre invece avrei dovuto scoprire Qualcos'Altro.

Talvolta, trasportato da un inaspettato fervore, nottetempo catturavo furiosamente robuste parole e significati. Alla stregua di meravigliose anguille luminose, piovre gigantesche e pesci dentati affioravano e investivano da tutte le parti il mio Kon -Tiki. Tutto accalorato li estraevo rapidamente uno dopo l'altro dalla materia oscura sovraccaricandone il ponte. Da quel mucchio i loro giganteschi occhi fiammeggiavano nel buio come la fucina di un fabbro. „Oh, Signore, che preda!“ – andavo ripetendo tra me e me. – „Questo è bene, è bene!“ Ma già alla prima luce fredda del mattino scorsi a me dinnanzi, rimanendo completamente sconvolto dal misero spettacolo, solo un ammasso informe di parole indigeste e di balbettii, pelli vuote, gonfie, di pesci senza carne né lische, viscere scompigliate e rivoltate, gusci vuoti e squame, solo squame dappertutto.

Di colpo successe uno strano rivolgimento. Quasi senza che me ne accorgessi, ad un tratto, venni circondato da tutte le parti e ruotato in tutti i sensi, da possenti, titaniche correnti marine. Erano talmente forti e agitate da portersi osservare a occhio nudo, fate conto come se il Rio delle Amazzoni, il Volga e il Missisippi assieme confluissero  in mezzo all'oceano e, non bastasse, come se tutto ciò stesse scivolando lontano, viaggiando verso qualche luogo: viaggiava l'oceano, viaggiavano al suo interno i vari Rio delle Amazzoni,Volga, Missisippi, e viaggiava la mia fragile imbarcazione alla mercé di un destino assolutamente incerto. In verità, sembrava che laggiù da qualche parte, in fondo in fondo, nelle inconoscibili tenebre dell'inibente oceano fatto di materia oscura, il fondale tettonico si fosse improvvisamente inclinato, per cui tutto incominciò velocemente a travasarsi lungo un nuovo declivio, come verso delle vertiginose cascate ultraterrene quasi che quell'enorme, denso e torbido liquido dovesse traboccare da qualche parte, spandersi. Chissà che cosa mai mi attendeva ancora, laggiù?

Debbo però dire che ogni mia recente paura e titubanza erano sparite; in effetti erano state già del tutto rimosse dalla salda consapevolezza che, nel mio impudente proposito colombiano, ne avevo comunque fatta di strada, che mi ero cioè infinitamente e irreversibilmente allontanato da tutte le sponde a me conosciute, e che adesso mi ritrovavo veramente  in uno spazio e tempo assolutamente ignoti e che mai più, grazie al Cielo!,  avrei fatto ritorno nel minuscolo, nebuloso, monotono alieutico Porto Morto, quantunque, alla fin fine, in quest'insolito, lungo viaggio, non fossi riuscito ad arrivare da nessuna parte. Perché s'era dimostrato che il viaggio in sé e per sé era gradatamente evoluto in un'eccitante , particolarissima poesia e poetica nautica, e che era fine a se stesso, per quanto fosse - per me medesimo, ma anche per gli altri - tenebroso, non trasparente e inspiegabile.

Presagivo che quell'oceano fatto di materia oscura avesse - e tutto sembrava condurmi inarrestabilmente lì -  una qualche foce, un punto di sbocco nell'Altrove, una specie di gola nelle cui ribollenti fauci, tra falesie vertiginosamente scoscese, era tutto un gorgogliare di lingua salmastra e parole salmastre, una gola dietro alla quale si estendeva a perdita d'occhio, in profondità e in lontananza, una dimensione completamente diversa, sconfinata, divinamente trasparente, forse una materia luminosa, che sboccava anch'essa qui, però in senso contrario. Ed effettivamente, si trattava proprio di quella presagita foce della lingua, del linguaggio e delle parole primordiali che, dietro le precipiti falesie della lingua salmastra, si riversava nella materia oscura al di qua.

E qui, in questo stupefacente e spaventoso incrocio oceanico – o rotatoria o vortice - in burrasca, avveniva il miracolo della creazione e ricreazione della lingua. Giovani parole aggressive irrompevano sfrecciando e in un attimo ingoiavano sfrontate le parole più vecchie, fruste, taciturne e quiete, ma talvolta bellissime nella loro decadente signorilità dell'arte per l'arte.

In quel posto divenni testimone, gli occhi e tutti i sensi allertati, di un incredibile cannibalismo linguistico e verbale. Interi linguaggi  divoravano se stessi rimpinzandosi di altri linguaggi grandi e piccoli fino all'eccidio linguistico, fino allo sterminio. Dietro di loro rimasero  solamente la desolazione e il vuoto verbale.

Un veloce branco di invasivi gerghi pericolosi, insolenti, pressoché selvaggi e autogenerantisi, dei più vari per genere e origine, giunse in volo da tutte le parti e profondità, simili a minuscole vespe di mare velenose che, pur muovendosi fulminee, si moltiplicavano, raddoppiavano, triplicavano, quadruplicavano e prendevano possesso delle aree - meravigliose e ormai assolutamente rare e tuttora non inquinate - della vasta distesa marina, strappandole alle ultime gigantesche Nomura, ai tranquilli, graziosi linguaggi e vocaboli aborigeni, che dovevano  e prendevano la propria divina iniziazione primigenia da qualche remota luminosità, da delicate nebbioline e dal potente palcoscenico celeste.

E per tutto quel tempo, dappertutto all'intorno, cadeva a dirotto  un'assordante pioggia di esultanti parole e sillabe. Come se lì da qualche parte, nella variopinta mappa delle lingue, una colossale, metafisica tromba marina sradicasse e aspirasse un esultante linguaggio e, sollevata da vigorose correnti atmosferiche, lo portasse proprio in questo posto, al centro di una generale dissipazione e frantumazione.

Si trattava della terrificante, viva messa in scena dell'antica maledizione babilonese, così come appariva nella mia cupa immaginazione. Caduto in uno stato pressoché ossessivo, simile al più immersivo dei nirvana, osservavo tutto dal margine del ponte della mia folle Argozattera tuffata nella misteriosa Essenza.

D'altronde, tutto il vasto cielo, se così si poteva definire quello spazio pressoché virtuale, sconvolto, ebbro, che mi sovrastava e che sembrava gonfiarsi e sgonfiarsi senza rumore, simile a un immaginario polmone metafisico, era pieno di migliaia e migliaia di bellissime rondinelle gialle e verdine e da rondoni rosa, i quali, volando alti,  dormivano sulle proprie ali arancioni, e di altri vari uccelli di aspetto esotico, dai vivaci colori fluorescenti, sparsi dovunque in alto. Eseguendo nell'aria spettacolari acrobazie, si lanciavano saettanti in picchiata fino a sfiorare la superficie della lingua salmastra, fin nei miei pensieri più nascosti, nel profondo del mio intimo, e poi, bruscamente, al suono di un generale straordinario cinguettio, di canti e di voci i più insoliti, altrettanto velocemente e vigorosamente, volando giocosi e sinuosi, salivano fino ad altezze surreali, fino a scomparire, intanto che altri in volo radente si lanciavano nella direzione opposta, oppure raccolti in piccoli stormi vivaci intersecavano gli altri stormi, talvolta persino accompagnandoli nella direzione in cui questi ultimi correvano, creando un fantastico inestricabile groviglio, oppure un irrequieto arcobaleno, che, a tratti,  formava un'alta imponente arcata celeste e, a tratti, si disintegrava in una miriade di graziosi frantumi. Alcuni di quegli uccelli dai lunghi becchi neri e dai bellissimi corpi affusolati color marrone carbone si avventavano in picchiata da altezze inimmaginabili, tuffandosi con irruenza nella materia oscura per poi decollare, con altrettanta suggestività, veemenza e agilità, come siluri sottomarini, sollevandosi in alto a perdita d'occhio.

Di prim'acchito non capii assolutamente perché tutti quegli uccelli quasi immateriali nel loro incessante volo, follemente caotico e tuttavia perfettamente organizzato, si fossero radunati proprio qui, sopra questo  ribollente cratere salmastro, che poteva essere anche una specie di l’accesso celeste al varco spazio-temporale della lingua, la via più breve e veloce per raggiungere le misteriose latebre della lingua madre, oppure poteva anche trattarsi di qualche forma di protosilenzio precedente il momento esatto in cui comparve la prima voce, il primo segno o in genere un qualcosa di primo che avesse un qualche significato reale; ma allora compresi chiaramente che essi, gli uccelli, erano convolati qui da ogni dove, addirittura dalle più remote regioni metafisiche, per ricevere un cibo divino: le parole, le sillabe, i lessemi, i fonemi e i lessigrammi,  i suoni e gli accenti appena concepiti, le briciole di puntini, le virgole e le altre minuscole interpunzioni, che al momento non avevano ancora alcun significato; per ricevere quel nutriente plancton celeste sparso dovunque in abbondanza, sulle spumeggianti creste marine, nell'aria turbinosa, dovunque in questo – sto cercando l'aggettivo o il sostantivo giusto! – posto che contiene l'origine prima e più profonda del nascere e del fermentare, il posto dei primordi.

Tuttavia qui, in questo frangente di singolare, quasi divina ispirazione, niente avrebbe potuto essere diverso, niente avrebbe potuto essere meno meraviglioso né stupefacente, perché il misteriosissimo altrove, dove mi aveva condotto sulla nera zattera il richiamo del destino, sottraendomi ai terrificanti recessi del naufragio morfeico, era in effetti quel prodigioso cosmogonico Protoutero della protogenesi della protolingua, il cui irripetibile, fascinante, numinoso avvento in questo mondo muto era giusto cominciato.

Ad un tratto, ma del tutto bruscamente e letteralmente in un unico solo attimo, come se una mano onnipotente l'avesse ordinato, tutto si acquietò e perfettamente si placò. Un tale silenzio e pace assoluti o la pace e il silenzio dell'Assoluto, erano semplicemente impossibili da concepire o descrivere. Erano la pace e il silenzio, inarrivabili ai sensi e alla ragione, della protocausa e della protoconseguenza di tutto, silenzio e pace in cui sicuramente si toccano e si compenetrano nelle più delicate delle sfumature l'inizio e il fine stesso dell'essere. E la mia zattera sperduta era la sola a cullarsi leggera sul vortice che adesso stava diventando liscio e lucido come un impeccabile smalto, limpido e trasparente fino alle profondità più incredibili, delle quali, per quanto si potesse forzare lo sguardo, non si scorgeva il fondo, come neppure quello del cielo sereno che mi sovrastava, diafano in maniera rapinosa,  sul quale, a parte la sua smisurata sublimità absidale che incuteva timore reverenziale, adesso d'acchito non c'era nient'altro. L'attimo  stesso in cui avvenne la subitanea estinzione di ogni movimento, suono e figura, quello stesso imprevisto avvenimento sembrava aver improvvisamente risucchiato e annientato tutto quanto s'era lì trovato in quel momento, tutta quella immaginaria flora e fauna altra, ogni loro ombra o traccia. La surreale trasparenza che si estendeva a perdita d'occhio in ogni dove cingeva e vigorosamente permeava ogni cosa, anche me stesso.

Lentamente, senza neanche rendermene conto, caddi in ginocchio sul bordo della zattera, umile e calmo come un monaco devoto, assorto nella sua assoluta, incrollabile fede.

Mi chinai e spalancando gli occhi tuffai il volto nella materia luminosa, quasi si trattasse di una cristallina sorgente himalayana, in quella grande e profonda, feconda acqua dell'incredibile genitrice cosmica, e incantato dalla sacra scena che mi si parò dinnanzi, vidi, quasi toccandolo con  mano, alzarsi leggero verso di me, gli occhi spalancati come i miei e l'ondeggiante cordone ombelicale tuttavia collegato a qualcosa di remoto e inconoscibile, trasportato sulle bollicine delle prime parole irreali, lo sguardo gelido ma anche divinamente bello e tenero, vidi il fantastico feto della protolingua.

Ero l'unico consacrato da un destino benigno a trovarsi in quel posto sacro proprio nell'incredibile momento in cui nasceva la protolingua, nell'attimo della sua divina epifania e apparizione, della sua mistica emersione dalla luce, dall'utero e dalla vagina del Tutto, ero il primo, in  guisa di una metafisica levatrice, ad accogliere nelle mie braccia quel miracolo dei miracoli, che aveva appena inspirato aria.

Ero veramente un eletto. Stavo ginocchioni, come uno sciamano, completamente posseduto da profondi e sconosciuti poteri interiori, con il bambinello-protolingua appena nato in braccio, mentre le prime, minute, limpide parole si appiccicavano e rimbalzavano dai bordi della mia zattera nera, silenziosamente lambita e illuminata dalle dolci ondicelle della materia luminosa, e tutt'intorno si estendeva solo l'infinito, l'infinito del Nulla, e l'infinito del Tutto. La protolingua e le parole, che nelle mie mani ancora non avevano incominciato né a piangere né a sorridere, si libravano sul mondo, innocenti come un grande, gentile Nume.       

 

Traduzione di Elis Geromella Barbalich